“Tristezza, per favore vai via”… o forse no?
“Le festività natalizie sono giunte al termine!”. Ebbene sì, sembra proprio che soltanto oggi, giorno del Blue Monday, il cervello degli abitanti dell’emisfero boreale riesca ad elaborare questa amara verità. Dopo esserci lasciati alle spalle due settimane di serenità e spensieratezza, ci attende un lungo periodo caratterizzato dall’assenza di giorni festivi e di ritorno alla routine quotidiana. Insomma, per farla breve, una tristezza infinita!
Il Blue Monday è una giornata dedicata all’elaborazione collettiva di questa emozione, la tristezza, che tanto ci impegniamo a combattere e contrastare con ogni mezzo, per lasciar posto ad emozioni cosiddette “positive”. Ma è davvero così? La tristezza è un’emozione così negativa? Scopriamolo insieme!
A cosa serve essere tristi?
Tutte le emozioni che proviamo (sì, anche quelle “negative”) hanno una funzione importantissima, ovvero quella di comunicare agli altri: un nostro bisogno, la presenza di eventuali pericoli o il cambiamento di uno stato di equilibrio. Esse si rivelano di fondamentale importanza perché ci consentono di organizzare e adattare il nostro comportamento in maniera coerente e funzionale con la situazione che viviamo in un determinato momento.
Pensiamo ad bambino appena nato. Come fa a comunicare i suoi bisogni e le sue necessità? Con un bel pianto disperato! Il pianto è lo strumento che ci fornisce un’idea dell’intensità del bisogno che sta sperimentando il bambino in quel momento. È la prima modalità con cui il neonato si relaziona col mondo.
In seguito, la comparsa di momenti di tristezza nel bambino ci darà un’altra informazione importantissima: il sistema di attaccamento si è attivato! Esso, infatti, consentirà al bambino di capire che l’adulto di riferimento è importante per la sua crescita, ma soprattutto che avrà bisogno degli altri nei momenti di maggior difficoltà. In questo senso, la comparsa della tristezza è indicativa della sperimentazione di una mancanza, della ricerca di un affetto che non è presente. Insomma, le fondamenta per le relazioni affettive future.
Sperimentare uno stato di tristezza, inoltre, ci mette in connessione con il nostro mondo interiore, promuovendo la riflessione autentica sugli eventi che hanno avuto un impatto (positivo e negativo) sulla nostra vita. Tutto questo per cercare di dare un senso a quello che ci accade. È come se mettessimo momentaneamente in pausa il “pilota automatico” con cui affrontiamo la nostra quotidianità, per riprendere il controllo manuale. Una volta elaborato e compreso il problema, è possibile tornare alla modalità di controllo automatico. È importante riuscire a possedere una certa agilità nel passare da una modalità all’altra di “guida” e i momenti di tristezza, ci possono aiutare a comprendere meglio questo passaggio.
Un’ultima importantissima funzione della tristezza è una conseguenza diretta di quanto detto sopra. Nel momento in cui riusciamo a soffermarci sul nostro stato interiore e ci rendiamo conto degli elementi che ci fanno stare male, possiamo iniziare… a cambiare le cose!
Sentire la tristezza, senza minimizzare quella dei bambini
La tristezza, quindi, è quella spinta che ci serve per sollecitare un cambiamento teso al raggiungimento di un nuovo equilibrio e un assetto migliore, mostrandoci nuove prospettive che, in un momento precedente, non erano così visibili.
Minimizzare, quindi, un momento di sconforto di un bambino, sulla base del fatto che per noi adulti è un evento di poco conto, significa non dare la possibilità a quel bambino di sperimentare a pieno la sua emozione e di riflettere su quanto accaduto, ovvero sugli eventi che lo hanno portato a sperimentare quelle determinate sensazioni. Non solo, il bambino imparerà che le sue emozioni saranno inadeguate al contesto e tenderà a reprimerle con ovvie conseguenze sulla sua struttura di personalità.
Per consentirci di “sentire” la nostra tristezza ed esprimerla all’esterno, dobbiamo però consentirci di dire a noi stessi che, a volte, possiamo essere vulnerabili, possiamo aver bisogno di qualcun altro e che possiamo permetterci di non essere totalmente sotto controllo. E questo non è facile per tutti, soprattutto per i bambini: essi possono avere paura di provare tristezza, soprattutto se nel corso della loro prime esperienze di vita hanno imparato che, in un momento del bisogno, non hanno avuto la possibilità di trovare alcun sostegno.
E quindi si può imparare molto presto a non riuscire a stare in contatto con questa emozione, a negarne perfino l’esistenza. Tutto questo per proteggerci dal rischio di non trovare qualcuno disponibile a sostenerci e fornirci aiuto quando ne avremmo bisogno. Così si impara a “non sentire” e a fare tutto da soli, si crede di non aver bisogno di nessuno e di essere autosufficienti qualunque cosa accada.
La tristezza nei bambini nella nostra cultura
La nostra cultura, spesso, ci porta a considerare la tristezza come un qualcosa che è meglio nascondere, non mostrare. O meglio, dipende in larga parte dal genere di appartenenza. Alle bambine, infatti, viene insegnato che la manifestazione in pubblico della propria tristezza è qualcosa di apprezzabile, che aggiunge valore alla propria figura in termini di desiderabilità sociale (probabilmente anche a causa di antichi retaggi culturali in cui fragilità e vulnerabilità erano viste come caratteristiche intrinseche alla figura femminile e, per questo, valorizzate).
Al contrario, nei maschi, per i medesimi retaggi culturali, il pianto (soprattutto in pubblico) è qualcosa di denigrante, che è preferibile celare e nascondere in ogni modo. Qui la vulnerabilità è valutata in modo decisamente negativo, in un contesto estremamente competitivo dove, mostrarsi fragili, potrebbe rivelarsi un problema. Le conseguenze dirette sono facilmente intuibili: le ragazze crescono con una maggior capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, se confrontate con i loro coetanei maschi.
Connettersi con le proprie emozioni
La paura di sentire e stare in contatto ci porta spesso a vivere evitando le nostre emozioni. Ma questi meccanismi hanno costi importanti. È vero che entrare in contatto con quello che sentiamo può essere a volte faticoso, doloroso; ma è anche vero che non connettersi con queste emozioni, significa vivere una vita non piena.
Così, non consentirci di sperimentare la tristezza ci priva della possibilità di imparare a gestirla: non ci consentiamo di sperimentare il fatto che abbiamo tutte le risorse necessarie per fronteggiarla o almeno per imparare a maneggiarla. Non riusciamo a vedere che la tristezza è solo tristezza. E non la accettiamo come parte della nostra vita, una naturale fase di passaggio.
In conclusione, quindi, quale miglior modo di celebrare questo Blue Monday se non con una ritrovata consapevolezza di noi stessi e dei nostri vissuti? Abbiamo scoperto che la tristezza è una compagna di viaggio scomoda, indesiderata che spesso cerchiamo di lasciare “a piedi”; ma al tempo stesso si rivela estremamente necessaria, in quanto ci dà la possibilità di fermarsi, ascoltarsi e orientarsi per ritrovare la strada giusta. Un’occasione, quindi, per poter entrare in contatto con il nostro mondo interiore, alla ricerca di modalità alternative per far fronte alle piccole o grandi difficoltà che la vita ci mette davanti.
Dott. Francesco Corazza. Psicologo.